Teho Teardo, il punk delle colonne sonore

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Non tutti rimangono in provincia. Alcuni decidono che non è il posto per loro e si spostano in luoghi più adatti alle proprie esigenze. Uno di questi è Teho Teardo, compositore pordenonese che, grazie alle sue colonne sonore, negli ultimi anni è diventato l’icona di un certo cinema Italiano, quello fatto bene, che ci rappresenta nel mondo e dimostra che abbiamo ancora qualcosa da dire.

Ho incontrato Teho nel suo Studio, situato in uno dei quartieri multietnici di Roma, città in cui vive da alcuni anni. Lo studio è una piccola casetta incastrata tra un palazzo e un teatro, all’ombra in un corridoio difficile da individuare, protetto alla vista da un grosso cancello metallico. Dentro lo Studio si è isolati dal mondo. Pochi suoni arrivano dall’esterno, a parte la vibrazione della metro, che in città è onnipresente e ci ricorda dove siamo. Difficile pensare che poco più in là si è immersi nella vita di uno dei più caotici quartieri cittadini.

La nostra chiacchierata comincia davanti ad una tazzina di Illy, un’abitudine che neanche la città è riuscita a sostituire.

Teho Teardo compositore

Teho Teardo – foto di Andrea Boccalini, grafiche di Federico Manias

Quando è nata la passione per la musica?

Mio padre era un appassionato di musica classica. In casa c’erano molti dischi, alcuni strumenti. Con lui ho studiato il clarinetto fin da bambino, mi ha insegnato il solfeggio e la tecnica. In realtà come strumento non mi è mai piaciuto, quando sei adolescente tutti si divertono a suonare in un gruppo, e col clarinetto non vai da nessuna parte. Quindi sono passato alla chitarra, poi alla chitarra elettrica e da lì sono cominciati i primi gruppi punk rock.

C’è stato un evento particolare che ti ha fatto capire che volevi fare il musicista?

No, faccio fatica a pensare che ci sia un evento particolare che ti porti a cambiare. Credi sia sempre una stratificazione di più situazioni; sono piccole cellule che si depositano nel pensiero lentamente, fino a quando realizzi che ti piacerebbe provare a farlo.

Ho iniziato a suonare per passione, senza nessun tipo di ambizione. Però, man mano che passava il tempo, mi sono reso conto che cambiavano le situazioni attorno a me, le persone con cui suonavo, ma io non mollavo mai, con una cocciutaggine fortissima. Allora mi sono detto che doveva esserci qualcos’altro. La voglia di fare si traduce nella necessità di farlo, è una questione di urgenza, di bisogno di scrivere musica, di esprimersi. Una spinta interiore.

Quindi ti organizzi per provarci nel miglior modo possibile.

Durante gli anni ’90 hai suonato nei Meathead. Com’è nata l’esperienza?

Mi sono prefissato che il progetto sarebbe durato 5 anni, per un massimo di 4 album, e così è stato. Non mi piace l’idea che una band duri in eterno, ogni progetto deve avere un inizio ed una fine.

All’inizio i Meathead ero solo io. Ho chiamato dei miei amici per la copertina del disco, però ho suonato io tutti gli strumenti. Ho avuto difficoltà a trovare qualcuno che volesse scommettere su un certo tipo di percorso musicale, cosa che nella vita mi è successa un sacco di volte. Ad esempio, usavo molto i campionatori, che per un certo tipo di mentalità rock sono un Tabù. Non avendo la possibilità di muovermi come avrei voluto, ho cominciato a contattare musicisti in giro per il mondo. Spedivo i nastri del disco in America, in Svezia, loro suonavano e io alla fine rimontavo tutto. Il primo album è nato così ed è stata un’esperienza formativamente molto importante.

In seguito ho trovato dei musicisti con cui mettere assieme un gruppo. Quello con cui ho attraversato la fase più lunga con i Meathead è Gino Cardin, il bassista e anche un caro amico. Insieme abbiamo suonato in tutta Europa.

Siete definiti Industrial italiana…

Industrial sono le mie origini musicali. Ho pubblicato il mio primo album, registrato in Inghilterra, quando avevo 18 anni. Era un disco realizzato con lavatrici, martelli pneumatici, in sintonia con la scena sperimentale di allora, e subiva la fascinazione delle zone industriali in prossimità delle nostre città…

Come hai iniziato a lavorare nel Cinema?

Per caso. Gabriele Salvatores e Federico Dè Robertis, il musicista con cui lavorava, avevano ascoltato un mio disco, un progetto che si chiamava Here che avevo registrato a New York. Il disco gli è piaciuto talmente che mi ha coinvolto per lavorare al suo nuovo film, “Denti”, del 1999. Non avevo mai lavorato prima nel cinema, tra l’altro la produzione era grossa, Salvatores aveva vinto l’Oscar. Poi non ho più smesso.

Diaz album cover Teho Teardo

Dopo Salvatores, hai lavorato con Molaioli, prima con La ragazza del Lago, che è girato dalle nostre parti, poi con Il gioiellino; e con Paolo Sorrentino, da L’amico di famiglia al Divo. Com’è il tuo rapporto con questi due registi?

Ho sempre avuto ottimi rapporti con i registi con cui ho lavorato. Quando c’è intesa si può mettere tutto in discussione con uno sguardo critico anche molto forte. Questa mattina ho passato un’ora con Daniele Vicari, che è il regista con cui ho fatto Diaz, La nave dolce ed Il passato è una terra straniera. Con loro è come se suonassimo insieme, come se fossero persone della mia Band. Ecco, abbiamo un rapporto molto musicale.

Come nasce l’idea per una colonna sonora? Parte da te o da un confronto con il regista?

Le possibilità sono tante, fortunatamente non c’è uno schema che si ripete. Però è vero che leggendo la sceneggiatura mi trovo in una dimensione congeniale. Perché il testo innesca già delle immagini e le immagini sono strettamente legate al suono. Lo spiego meglio dicendo che, se sento un suono, lo vedo.

Quello è l’inizio. Poi si parla tantissimo con il regista, ci si confronta ancora prima dell’inizio delle riprese. Sono uno dei primi a iniziare e uno degli ultimi a finire, perché il missaggio finale si fa pochi giorni prima che il film vada al cinema.

La Ragazza del Lago poster

C’è un film che consideri più importante nella tua esperienza?

Ho avuto il privilegio di lavorare con degli autori che non fanno intrattenimento, ma cercano qualcosa di significativo da raccontare. Alcuni film, come DiazIl Divo, hanno avuto un impatto particolare soprattutto per gli argomenti che trattano.

Un film a cui sono legatissimo, però, è La ragazza del Lago.

Hai difficoltà a bilanciare i tuoi progetti personali con l’impegno nel cinema?

Non ci sono due cose ma una sola, che è la musica. Può prendere forma nei dischi, nel cinema o in TV, ma è un unico continente, dove ci sono territori diversi legati tra loro.

Quando hai deciso di lasciare la provincia per trasferirti a Roma?

Non mi sono trasferito qui per il cinema, perchè ci lavoravo già da parecchi anni.  Quando ho deciso di lasciare Pordenone, ho scelto Roma perché mi piace la città, mi sembrava la più interessante in Italia in quel momento.

Mi ero stancato di Pordenone perché, quando lavori in un posto piccolo, sei inevitabilmente isolato. Nulla contro la città in sé, ma ci sono delle condizioni logistiche invalicabili. Le cose che succedono altrove arrivano solo di riflesso, mentre io voglio avere a che fare con le cose ancora prima che succedano. È una questione di necessità di confronto.

In più ho sempre avuto difficoltà a trovare musicisti di alto livello con cui lavorare, perché è un posto piccolo e numericamente le possibilità sono minori. Siccome la musica non si fa da soli ma è sempre un confronto con altri musicisti, suonare a Roma è molto più facile che suonare a Pordenone. Poi la città è collegata benissimo con il resto dell’Europa.

In più mi ero stufato di una cosa tipica dei posti di provincia, cioè quella seconda domanda, che arriva sempre mezzo secondo dopo che hai detto a qualcuno che sei un Musicista, che è “va bene, ma cosa fai davvero nella vita? Come campi?”. Io sono un musicista, sono un compositore! Avevo bisogno di stare in un posto dove la mia professionalità fosse riconosciuta e si distinguesse da chi suona per hobby. In realtà, questa seconda domanda tradisce lo spirito della provincia, dove chi ti conosce a quindici anni per quello che fai pretende che per tutta la vita tu sia lì cristallizzato lì, imponendoti una sorta di immobilismo rassicurante secondo il quale sarai la stessa cosa per tutta la tua vita.

Parlando con Remo Anzovino, lui ha detto che l’isolamento in provincia può essere una cosa positiva, perché ti spinge a spostarti con la creatività e con la fantasia.

Secondo me è un ragionamento che vale più per l’agricoltura a chilometro zero che per la musica o la cultura in generale, probabilmente ha un senso se riferito alle zucchine e i pomodori a mezzo chilometro da casa tua, se permetti, la musica è ben altra cosa! Qui posso essere isolatissimo, so chi arriva alla porta e decido io chi far entrare e chi no; posso non rispondere al telefono. Ma, se voglio, ho il mondo davanti a me con cui confrontarmi in una città dove succede di tutto.

Preferisco di gran lunga il riferimento diretto con la città dove le persone hanno deciso di mettersi in discussione e far qualcosa di creativo. Roma è molto cara, quindi se non fai le cose sul serio finisci in rovina. In più mi piace sentirmi parte di una comunità di persone, che non è composta solo da musicisti, ma da scrittori, letterati, registi, studiosi che come me cercano una propria strada nell’arte.

Parliamo di progetti futuri. A gennaio esce il tuo nuovo album.

L’album si intitola Music for Wilder Mann. Wilder Mann è un libro fotografico di Charles Fréger, un fotografo molto noto, credo questo sia proprio il suo momento. Mi sono imbattuto casualmente in questo libro, ero in una libreria a Berlino, mi è caduto sul piede da una scaffale che un amico aveva urtato. Il libro è un lavoro di indagine attraverso l’Europa, dove Fréger ha fotografato dei personaggi che arrivano dalla tradizione pagana, dal ciclo della vita, dalla fertilità dei campi. La maggior parte di questi hanno un profilo mostruoso, aggressivo. Sono una combinazione tra spaventevole e feroce, con un fortissimo legame con la natura. In un momento storico il cui siamo circondati dai social network, questo libro rimette in discussione molti aspetti circa le relazioni sociali. È un aspetto selvaggio e primitivo che nella musica mi ha sempre attirato.

Cover Music for Wilder Mann Teho Teardo

La copertina di “Music for Wilder Mann”, il nuovo album di Teho Teardo

Com’è la collaborazione tra un fotografo e un musicista?

Ho scritto una mail al fotografo e un quarto d’ora dopo mi ha telefonato. Ci siamo incontrati a Parigi e abbiamo collaborato a questo progetto. Ora esce il disco.

Abbiamo parlato molto. Il disco è ispirato alle immagini, non solo quelle del libro; Fréger mi ha fornito tutti gli scatti che ha fatto, corredati dagli appunti e dai racconti che ha raccolto. È stato quasi come lavorare ad un altro film, solo che il testo, in questo caso, era costituito dalle immagini. È un disco con delle dinamiche cinematografiche, ma non è assolutamente un disco cinematico, tutt’altro, ha diversi riferimenti con una sorta di folk pagano. Come del resto la musica che faccio per il cinema non è solamente pensata per le immagini ma vive di vita propria.

Altri progetti?

Ho finito adesso di registrare un disco a Berlino con Blixa Bargeld, che è il cantante degli Einstürzende Neubauten e un ex membro dei Nick Cave and the Bad Seeds. Tra l’altro, è lui l’amico che ha urtato il libro nella libreria di Berlino. Questo progetto è molto importante per me; inizio a missarlo adesso e sarà in uscita in primavera.

Dovendo scegliere i brani da consigliarci, Teho comincia a sfogliare tra la sua collezione di vinili, che occupa quasi interamente una parete del suo studio. Sparsi qua e là ci sono anche alcuni CD; la maggior parte, confessa, li conserva in scatoloni nello sgabuzzino, non essendo ancora riuscito a trovare una sistemazione. La ricerca ci porta a discutere dello stato attuale della musica.

Che rapporto hai con i vinili?

Ottimo! Non ho nulla contro la portabilità della musica, anche perché viaggio in continuazione. Però l’ascolto in vinile ti impone un certo tipo di attenzione che nella smaterializzazione della musica di oggi abbiamo perso. Con il vinile senti un lato per un certo tempo, poi ti obbliga ad alzarti per girarlo, riascoltare il lato o cambiarlo. Ora arrivano qua i miei amici con degli Hard Disk pieni di mp3, dove ci sono probabilmente due mesi di musica. Come li gestisci?

È  anche un rapporto feticistico?

Il primo feticcio della vita siamo noi. Se hai cura di te stesso, hai cura anche delle cose che ti riguardano. Alla nostalgia non c’è freno. Io non ho un rapporto nostalgico né con la musica, né con gli oggetti in generale. Però penso che se un formato dà un certo tipo di soddisfazione non ha senso privarsene.

Il vinile comporta una certa qualità di ascolto che con il CD non è possibile. La musica in mp3 manca completamente il senso del suono, che è drasticamente tagliato e compresso. Così si perde una cosa fondamentale, che è l’esperienza di stare davanti ad un suono e sentirlo, percepirlo. Poi non si sa chi ha suonato nel disco, non c’è scritta una nota. Sembrerebbe che tutto sia uguale.

Sei metodico nell’ascolto?

Ascolto almeno un album al giorno, come esercizio. Un compositore adesso ha più che mai l’obbligo di ascoltare quello che c’è intorno. Non penso mai però alla musica come divisa in generi, mi piace saltare in modo schizofrenico tra una cosa e l’altra, dalla Dubstep, all’elettronica, alla classica, purché la musica sia buona. Perché poi mi annoio facilmente.

Come vedi il futuro della musica?

Il fatto che le case discografiche siano più o meno esplose tutte è un’ottima notizia. Per come si sono comportate ed hanno lavorato, mi sorprende che siano durate così a lungo. Non hanno assolutamente compreso l’importanza della rete, anzi l’hanno combattuta in tutti i modi anche se era evidente già dieci anni fa che avrebbero perso.

Adesso ci sono molti aspetti vantaggiosi, ad esempio per gli ascoltatori è molto più facile accedere ai dati. Questo dovrebbe creare un livello culturale più alto, anche se in realtà l’effetto per ora è l’opposto, perché l’iperdisponibilità di musica scaricata illegalmente non fa altro che stancare l’ascoltatore, che perde interesse invece di approfittarne. Credo però che sia un picco che in qualche modo bisognava raggiungere. I fenomeni di nicchia, come il ritorno al vinile, sono positivi. Si risveglia una coscienza di maggiore attenzione verso la musica.

Nel suono legale in internet oggi c’è però un altro problema. Servizi come Spotify o Pandora, o Netflix per il cinema, hanno una grandissima offerta, costano molto poco, però dall’altra parte le royalty pagate agli artisti sono irrisorie.

Spero che da questo momento nebuloso si riesca a riorganizzarsi per tornare a una situazione in cui l’accesso alla musica è totalmente legale e la gente capisca che fare il musicista è un lavoro. In un album straordinario uscito quest’anno, che si chiama The Seer, degli Swans, c’è una frase molto bella.

 “Per cortesia non caricate questa musica su internet. Questa musica è il prodotto di lavoro, sudore, sangue e amore. Trattarla come un mucchio di sabbia e buttarla nell’aria svilirebbe il lavoro e renderebbe sempre più difficile, fino ad essere impossibile, continuare a fare musica. Pensateci e per cortesia non lo fate”

Questa cosa è molto semplice. Fare un disco così costa $50.000. Se vuoi che questa gente continui a lavorare devi sapere che ha un costo. Certamente lo puoi scaricare gratuitamente dalla rete, però tra un po’ questi musicisti non potranno più permettersi di lavorare, quindi tu questa cosa qui non ce l’avrai più. All’ascoltatore la scelta. Quando ascolto della musica, se c’è qualcosa che mi interessa la compro, perché so di supportare una causa in cui mi identifico. È altrettanto vero che tante persone non se lo possono permettere, ma quella gente c’è sempre stata, c’è sempre stato chi si scambiava le cassette o i vinili.

Poi un disco quanto costa? Il mio CD nuovo costa €10 e ti dura trent’anni. Alcuni dischi, come The Pearl di Brian Eno, che ho comprato nel ’84 per 15.000 lire, li ho ascoltati in migliaia di occasioni, mi hanno riempito la vita, mi hanno dato delle emozioni spaventose. Alla fine cosa sono quei soldi?

Consigliaci un film e tre canzoni

Lo zoo di Venere, di Peter Greenaway. È un film degli anni ’80, visto che è passato così tanto tempo da quando è uscito, penso sia il caso di rivederlo.

The Never Ending Happening di Bill Fay

Romance di Wild Flag

Speaking in Rounds di Grizzly Bear

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N.d.R.: Ringraziamo Jackeyed per averci aiutato ad organizzare l’intervista.