Paolo Cossi è un fumettista pordenonese – di Brugnera per l’esattezza – divenuto famoso nei primi 2000, a soli 22 anni, grazie al successo inaspettato del suo libro su Mauro Corona, “Corona, l’uomo del bosco di Erto”.
In questi dieci anni ha continuato a lavorare e si è fatto un nome nel panorama del fumetto d’autore. Oggi, a 33 anni, i suoi libri sono tradotti in molte lingue e si possono trovare in tutto il mondo. Nonostante questo, è rimasto nella sua terra d’origine. Vive e lavora ad Andreis, in una piccola casa circondata dal verde a due passi dal centro del paese.
Siamo andati a trovarlo in una giornata di luglio. Seduti al fresco nel suo giardino, abbiamo parlato della sua passione e di come si possa vivere di fumetto senza spostarsi nelle grandi città.

Paolo Cossi – ©Alessandro Venier, 2013
Com’è nata la passione per il fumetto?
Tutto è iniziato dal disegno. Quando ero piccolo sono sempre stato molto malato. In casa non c’era la televisione, quindi i miei genitori, per farmi passare il tempo, mi davano dei fogli e mi spingevano a disegnare. Costretto a letto, disegnavo, disegnavo, disegnavo… Così ho cominciato a copiare quello che vedevo e le prime cose erano i fumetti di Asterix e di Jacovitti. Da lì è scattata la vera scintilla ed ho iniziato a scrivere le prime storielle. Da un male è nato il mio bene. Altrimenti, scapestrato com’ero, avrei passato il tempo a pescare rane e non mi sarei messo mai in un tavolino per tutte quelle ore a disegnare.
Quanti anni avevi quando hai cominciato?
Il primissimo disegno che ho l’ho fatto a 3 anni ed era uno scheletro con due teste. In realtà, il vero inizio è stato tra i 10 e gli 11 anni con la lettura dei fumetti, cosa che poi non è mai finita.
Quali sono gli autori che tu hanno influenzato di più?
Oltre a Goscinny e Uderzo con Asterix e Jacovitti, da un po’ più grandino ho iniziato a leggere Corto Maltese, che mi ha introdotto nel mondo dell’avventura, del sogno del viaggio, della libertà. Conosciuto Maltese, il passo è breve, perché in fumetteria trovi tutti questi bei fumetti di autori italiani, sia quelli forti degli anni ’70, quindi Hugo Pratt o Milo Manara, Sergio Toppi o Dino Battaglia, sia quelli lavorano ancora oggi, come Paolo Bacilieri, Gipi, ecc. Non ho un autore preferito in realtà, credo che ogni storia abbia il momento giusto per essere letta e deve essere letta in quel momento. Leggo comunque anche fumetto d’autore giapponese, come Taniguchi o Osamu Tezuka, o qualcosina di americano, come Craig Thompson. Mai porre limiti a tutta questa ricchezza di autori e storie bellissime.
Sei un’autodidatta o hai avuto una formazione di una scuola?
Nasco come autodidatta nel senso che il mio primo libro l’ho pubblicato mentre frequentavo la facoltà di Scienze della Comunicazione. Avevo molta voglia di raccontare e l’unico sistema che avevo era quello del fumetto, perché era l’unico linguaggio che utilizzavo in maniera naturale, a differenza della scrittura o della musica. A 17 anni ho pubblicato, insieme a due amici, una rivista autoprodotta che è andata bene, perché avevamo una tiratura di un migliaio di copie, che all’epoca era un grosso successo – stiamo parlando di fine anni ’90
Come si chiamava?
Pupak. Abbiamo stampato 5 numeri, che più o meno uscivano ogni sei mesi. Con “Corona, l’uomo del bosco di Erto”, il primo libro che ho pubblicato, appunto, mi si sono aperte le porte del mondo del professionismo. Infatti solo dopo sono arrivato alla Scuola del Fumetto di Milano, perché avevo vinto un concorso, indetto dalla stessa scuola, e come premio potevo frequentare il primo anno di corso gratuitamente. Era la scuola che sognavo da giovane ma che non potevo permettermi, quindi ci sono andato volentieri. Ho frequentato il primo anno, ma in realtà, visto che già lavoravo come fumettista, mi facevano seguire i corsi regolari la mattina e quelli dell’ultimo anno nel pomeriggio.
Come consideri l’esperienza?
Mi è servita per conoscere altre persone e capire come funziona l’ambiente. Mi ha fatto capire che non c’è la scuola o il corso per diventare fumettista, è un lungo processo che necessita molta forza di volontà. Il fumetto devi avercelo dentro, perchè vuol dire investire tempo, fatica, passare ore e ore piegato su un tavolino a disegnare per poi magari guadagnare poche lire. A me ci sono voluti dieci anni per arrivare a questo punto, stando lì a disegnare tutti i giorni.
Parliamo di “Corona, l’uomo del bosco di Erto” del 2002. Com’è nato il libro?

Volevo un personaggio bello e particolare per una storia, perché la chiave di qualsiasi fumetto è avere un bel personaggio. Su Corona circolavano molte leggende – qualcuno diceva che era un gigante, qualcuno un piccoletto, qualcuno che aveva la barba lunga. Ognuno dava la sua interpretazione perché in realtà all’epoca, sì, Mauro aveva già pubblicato due libri e fatto il film “L’uomo di legno”, però non era il Mauro di adesso, che tutti hanno visto anche dalla Bignardi. Aveva quest’aria da guru e io mi sono detto, caspita, questo è il personaggio che mi serve. Con la bandana, la barba e il sigaro, era già pronto per essere il protagonista di un fumetto.
Lui sarebbe stato ad una festa vicino al mio paese di lì a poco – io vivevo a San Cassiano di Brugnera – ho provato a fare una storia, qualche studio sul personaggio e quando era il momento mi sono armato di disegni e idee e sono andato alla conferenza. Lui era a un tavolino a bere del vino, mi presento con la cartellina e prima ancora di arrivare lui mi blocca e mi dice “Fermo la! Cosa vuoi vendermi?” “Non voglio venderle niente, ho fatto dei disegni e voglio proporle…” lui mi interrompe e dice “Prima ci beviamo un bicchiere di vino, poi discutiamo”. Allora beviamo un bicchiere, poi un’altro, poi il terzo e alla fine si decide a vedere i disegni. Dopo averli guardati mi ha detto semplicemente “ Tu finiscilo che facciamo il libro”. Ma fare un libro a fumetti richiede un sacco di tempo – c’è voluto un anno e mezzo, infatti questo incontro è avvenuto verso la fine del 2000 – e voleva dire andare ad Erto, incontrarlo, magari arrivare per poi scoprire che non c’era… Non c’era mai. A volte mi portava in giro per i boschi. Ma sul lavoro non mi diceva mai niente, “tanto sono sicuro che fai bene”. Fossero così i critici.
Un giorno, quando gli ho detto che l’avevo finito, mi fa “Bene, vieni a Erto che chiamo l’editore e facciamo il libro”. E così è stato.
Durante questo periodo mi è venuto qualche dubbio, perché stavo lavorando un sacco. Avevo chiamato l’editore, ma mi avevano risposto che ricevevano ogni giorno decine di lavori su Mauro Corona, però se non era lui che diceva che una cosa era valida o meno non si faceva niente. Per fortuna, a Mauro era piaciuto e infatti il libro è andato molto molto bene.
Cosa c’è di vero e di inventato nel libro?
Dentro c’è un po’ di tutto. Alcune storie sono prese dai suoi libri, da “Le voci del Bosco” o “Gocce di resina”. Mentre la parte che tiene unita il racconto è basata sulla mia esperienza con lui. C’è qualcosa di romanzato ma molto poco, perché effettivamente insieme abbiamo fatto molti giri, nel bosco e altrove.
La storia dello gnomo intrappolato nel tronco?
Quella è in parte vera. Non è vero che eravamo nella casera ma nel suo laboratorio, però è vero che aveva cercato di farmi vedere qualcosa in quel pezzo di legno. Lui li chiamava spiritelli. Li descriveva ma io non riuscivo a vedere niente in quel tronco, per quanto ci guardassi, e io di fantasia ne ho anche. Non ci vedevo niente. Poi lui ha cominciato a scolpire, ta ta ta ta, fatte le prime sbozzature e già era venuta fuori una faccia.
Nel 2005 hai pubblicato un libro sull’Unabomber, ci racconti un po’ com’è andata?
Quello sull’Unabomber è il primo libro dell’editrice Becco Giallo. Mi avevano contattato perché volevano creare una casa editrice solamente di fumetto di cronaca, che poi si è rivelata un’ottima idea, adesso sono lanciati, producono un sacco di bei libri. Solo che all’epoca di fumetto non ne sapevano molto. Mi hanno contattato con l’idea di fare, appunto, un libro sul Unabomber ma non tanto per raccontare la sua storia, che poi non si è mai conclusa, quanto per divulgare il messaggio di far attenzione che potesse essere letto sia da un adulto che da un bambino che guarda solo le immagini. È stato un lavoro molto impegnativo, perché non volevamo puntare sulla spettacolarità della violenza – il tipo che perde il braccio, ecc. Volevamo fare qualcosa nel rispetto di chi purtroppo era stato colpito.
Poi il libro è uscito. Cosa curiosa è che per fare la prima presentazione abbiamo dovuto far visionare il libro alle forze dell’ordine, poi alla presentazione c’erano carabinieri in borghese tra il pubblico. Insomma questa è la storia di Unabomber. Per fortuna ora non se ne parla più. Ci sono stati un sacco di arresti che poi non si sono rivelati corretti, ecc. L’importante è che siano tanti anni che ormai non fa nulla.
Il tuo libro che ha avuto più successo è “Medz Yeghern, il grande male”. Ci parli un po’ di questo progetto?
Medz Yeghern è la storia del genocidio del popolo armeno del 1915, genocidio del quale si sapeva pochissimo fino a qualche anno fa. Io stesso non ne sapevo nulla, me ne ha parlato un amico che va spesso in Turchia sul monte Ararat per cercare l’arca di Noè. Mi raccontava di queste caverne dove ritrovava ossa umane, abiti, teschi di donne e bambini uccisi a colpi d’arma bianca. Quando mi ha raccontato che in pochi mesi sono stati sterminati un milione e mezzo di Armeni, praticamente due terzi della popolazione dell’epoca, io ho pensato fosse una bufala. Com’è possibile che di questa storia non ci sia niente nei libri di storia? Mi sembrava un po’ esagerata. Allora, perché sono un curioso, ho cominciato a documentarmi e da lì è nata l’idea di farne un fumetto.
Perché divulgare questa storia? Quello di Medz Yeghern è il primo grande genocidio del secolo. Non per niente, Hitler, quando gli hanno detto che stavano iniziando a far sparire troppa gente e qualcuno se ne sarebbe accorto, ha dichiarato “chi si ricorda più dello sterminio armeno?” E aveva ragione, perché quando un genocidio viene dimenticato diventa padre di altri genocidi. Se si esamina la metodologia che hanno usato i tedeschi nella seconda guerra mondiale per sterminare le minoranze, è esattamente la stessa usata dai nazionalisti turchi per far fuori greci e armeni. L’uso dei carri bestiami, la quantità di uomini da portare, far fuori prima l’intellighenzia, la cultura, la politica, gli uomini per poi lavorare su donne bambini e anziani. L’unica differenza è che i tedeschi non avevano a disposizione un deserto dove far sparire la gente e quindi si è “optato” per i forni crematori.
Quindi ho voluto raccontare questa storia però rispettando la Storia, infatti tutti i dati che rivelo sono assolutamente affidabili e realistici. I protagonisti sono due, un armeno e un turco. Ho voluto che un protagonista fosse un turco perché non volevo assolutamente che questo apparisse come un fumetto anti turco, cosa che purtroppo molti pensano. Si parla di gruppi di persone che hanno commesso un grave reato, indipendentemente dalla nazionalità. In realtà molti armeni si sono salvati proprio per l’aiuto dei contadini turchi.
Il libro ha avuto parecchie traduzioni, è distribuito in Francia, Belgio, Spagna, Korea… Adesso vogliono tradurlo in Sardo! Manca quella inglese, ed è un peccato perché la più grande comunità armena vive negli Stati Uniti. Vedremo.
Hai avuto modo di portarlo in Turchia e vedere le reazioni?
In Turchia non puoi perché c’è una legge che dice che se qualcuno parla del genocidio viene automaticamente arrestato, in quanto è calunnia nei confronti dello stato, eccetera eccetera.
Quindi in Turchia non ci metti piede.
In effetti, per chi ha seguito l’evolversi della questione negli ultimi anni, è stata anche una discussione intorno all’entrata della Turchia nell’Unione Europea. La Francia, dove vivono il maggior numero di Armeni in Europa, ha posto come veto che la Turchia avrebbe dovuto ammettere il genocidio. Non è accettabile che tu sia nell’Europa e neghi un genocidio e hai una legge contro chi ne parla. Che poi, voglio dire, sono passati 90 anni. È come se la Germania negasse l’olocausto. Non è che se diciamo che non è successo niente le cose migliorano, anzi.
Cambiamo argomento e parliamo di qualcosa di più leggero. Come si vive di Fumetto in Italia? Il fumetto è molto seguito in Francia e Belgio, mentre in Italia, a parte i Bonelli…
Prossima domanda? Bisogna tener presente che ognuno ha la sua visione di come stiano andando le cose. C’è il fumetto d’autore – al quale io appartengo – ci sono i Bonelliani, i disegnatori della Disney… Io devo dire che dagli anni ’80 ad oggi, soprattutto negli ultimi 10 anni, sono sparite le riviste contenitore, dove una volta trovavi storie brevi anche di autori famosi. Recentemente ha chiuso perfino Linus. Erano rimaste solo le riviste erotiche e le riviste di chiesa. Adesso hanno chiuso anche le erotiche. È una grave perdita, perché il disegnatore poteva approcciarsi al fumetto con storie brevi, mentre adesso l’unico sistema per farti un po’ di gavetta è quello delle storie di 100 pagine, altrimenti non vieni pubblicato da nessuna parte. Il che è problematico, intanto perché rischi di scrivere cose che non ti piacciono e stufarti – quindi cala la qualità del lavoro. Poi, purtroppo, il mercato è andato restringendosi, un ragazzino preferisce comprare un manga perché con tre euro hai 200 pagine di fumetto, mentre per un fumetto di autore ti servono 15 euro.
Vedo però che qualcosa sta cambiando, soprattutto con internet. Per esempio il successo di Zero Calcare, che è nato come un blog, poi è diventato un fumetto ed ha spopolato le vendite. La Francia resta ancora il giardino dell’Eden, perché ci sono un sacco di veri collezionisti, che qui da noi sono molto rari. In effetti chi può va a lavorare in Francia.
E tu hai mai pensato di trasferirti?
Trasferirmi no perché non sanno cucinare, in Italia si mangia meglio.
A me piace stare qui. È una nave che affonda, però ormai ci sono affezionato, quindi va bene.
Il buon capitano non abbandona mai la nave che affonda.
Poi se andiamo via tutti non resta nessuno a dare una mano al capitano. Qualcuno con cui fare un brindisi nel momento dell’affondo ci vuole, perché da soli non è bello. Se il capitano, in questo caso, lo identifichiamo con la cultura – musica, poesia, fumetto – c’è sempre una speranza. Lavoro molto con la Francia, questo si. Però il mio legame è qui.
Riesci a lavorare anche dalla montagna?
È il potere di Dio Internet! In una stanzetta faccio le scansioni, mando via internet. Con la mail organizzo cose a Parigi, a Yerevan in Armenia o in Tunisia. Se poi sto in un posto così bello – come Andreis – e sto tutto il giorno su Facebook a chattare, allora posso anche stare in città che non cambia niente. Faccio il mio lavoro e poi esco, vado nei boschi e via.
Hai mai provato a fare animazione?
Sono molto affascinato dall’animazione ed ho amici che la fanno – come Mauro (N.d.R Mauro Carraro – leggi l’intervista). Una volta mi hanno anche proposto di lavorare a dei cartoni animati su Leonardo da Vinci, però non se n’è fatto niente. La mia passione è l’animazione cecoslovacca degli anni ’70. C’era Trinka che era uno dei più grandi.
Quello della mano?
Si, quello della mano nella stanza, quello è geniale. Poi c’è “Alice nel paese delle meraviglie”, se non lo conoscete è un film di un’ora e qualcosa che va visto, ma non quando siete tristi. Tutti gli animali sono fatti con teschi veri, è in stop motion con alcune parti recitate da una bambina vera. Tipo, il bianconiglio è un coniglio vero impagliato che poi si scuce e tira fuori la paglia. È una cosa allucinante.
Progetti Futuri?
Sono tanti perché lavoro sempre su diverse cose nello stesso tempo. Sto chiudendo un libro che si chiama “Operazione Nemesis”, che uscirà in Francia e in Armenia. È scritto da uno sceneggiatore parigino ed è la storia di Soghomon Tehliryan, che è quello che ha ucciso a Berlino il Talaat Pasha, uno dei triumviri che ha organizzato il genocidio di Medz Yeghern.
Poi ho scritto un libro per bambini, disegnato questa volta da Massimiliano Frezzato, che secondo me è uno dei più grandi disegnatori viventi in Italia. Il libro si chiama “Il gatto stregato”, è la storia di un gatto che vuole diventare stregone. È per bambini, ma se uno ha un po’ l’occhio può scoprirci molti riferimenti alla storia dei riti stregonici medioevali.
Ultima domanda. Cosa consiglieresti a chi non conosce il fumetto d’autore come prima lettura?
Se è uno a cui piace divertirsi gli consiglierei “Ritorno alla Terra” di Manu Larcenet, edito da Coconino Press.
Se uno è emotivo gli consiglierei “Blankets” di Craig Thompson, che è un libro un po’ impegnativo, perché sono 900 pagine, ma molto molto bello.
Se a uno piace la storia gli consiglierei “Matteò”, una bella storia di anarchici durante la rivoluzione russa.
Ce ne sono tante di cose. Io, più che consigliare un libro, consiglierei di mantenere viva la curiosità e poi di aprirsi a tutto.
N.d.R: Ringraziamo Mauro Carraro per averci aiutato ad organizzare questa intervista.—
Come al solito, ecco un po’ di link utili
- Intervista a Mauro Carraro, animatore, regista di “Hasta Santiago”
- Intervista a Eugenio Belgrado, allievo di Paolo Cossi
