Paolo Baldini – Lo studio in una valigia

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Paolo Baldini, produttore

Paolo Baldini – Foto di Mattia Balsamini, grafiche di Federico Manias

Come nasce la passione per la musica?

Ho iniziato a suonare da ragazzino, durante i primi anni delle superiori, nei primissimi anni ’90. Allora la figura del musicista era ancora un modello sociale importante per i ragazzini. Pordenone aveva una memoria giovane per quanto riguarda il suo passato musicale, per il Great Complotto in particolare, di cui non sapevo e ancora non so un cazzo. In città si sentiva una quasi tangibile sensazione musicale, un atteggiamento musicale, anche se forse non c’era neanche una produzione musicale rilevante. C’era comunque la sensazione che il territorio fosse preparato all’eventualità musicale.

Come tantissimi ragazzini della mia generazione ho iniziato a suonare la chitarra,  affascinato dal rock. Fino ai 17 anni ho suonato rock. Poi questa passione è scemata, c’è stata una rivelazione verso la black music, in particolare verso il reggae. Però solo molti anni dopo ho iniziato a suonarlo, non è stato immediato questo passaggio, dallo scoprire ed apprezzare il reggae al suonarlo. Ho capito presto che la chitarra non era lo strumento giusto per avere un peso in questo genere e sono passato al basso.

Con la mia prima band, i BR Stylers, ho realizzato un percorso di sperimentazione abbastanza veloce. I BR Styler sono stati il mio primo progetto di estetica musicale, grazie a loro sono passato dal suonare musica a produrla. Mi sono quindi interessato all’idea di realizzare i dischi della band. Quelli erano i primi anni in cui ci si rendeva conto che con il computer si poteva fare qualcosa in casa. Inizialmente, non sapendo usare il PC, convinsi il tastierista a comprarne uno e a iniziare ad usarlo. Ad un certo punto mi sono sostituito a lui e ho cominciato a produrre direttamente la musica dei BR Styler.

Perché sei diventato un produttore?

È un passo che tutti i musicisti si trovano a fare se non conoscono un produttore. Quando ho cominciato i produttori non c’erano: erano entità che si muovevano negli studi delle case discografiche. Era difficile avere contatti diretti. Veniva spontaneo farsi almeno il primo disco da soli per farsi conoscere. Fare un disco in uno studio vero, negli anni ’90, costava 20 milioni di Lire e poi cifre equivalenti in euro.

Sviluppando il suono dei BR Stylers, sono stato notato da altre persone, in particolare dal circuito degli Africa Unite, e mi sono ritrovato a fare qualcosa che non avrei mai pensato di fare: sviluppare il suono di un’altra band. Facendo questo ho scoperto forse l’unico talento che ho, che non è prettamente musicale, me è semplicemente quello di essere un forte catalizzatore e motivatore di un artista. Mi sono reso conto che questa capacità è una merce abbastanza rara. Questa capacità e la mia pazienza, mi hanno premiato molto.

Cercando di fare un po’ di chiarezza su chi è un produttore, dacci la tua definizione di questo lavoro.

Si tende a confondere il produttore esecutivo con il produttore artistico. Parlando del produttore artistico, il produttore è colui che organizza le risorse artistiche di una band e cerca di farle suonare al meglio. È un architetto che può essere commissionato da te per fare una grande opera, e in quanto committente e finanziatore hai qualche potere, ma è comunque minore di quello del produttore artistico, fino a quando questa prerogativa gli viene rinnovata. Il produttore artistico deve vedere in te delle capacità, deve sentire nei tuoi provini dell’energia, deve pianificare insieme a te degli obiettivi.

Per quanto mi riguarda sono un produttore Reggae e Dub. Faccio anche altre cose, ma le faccio solamente se gli artisti con cui lavoro stringono un patto rispetto alla musica da cui provengo. Se tu fai Indie Rock puoi fare un disco con me, però dobbiamo convincerci reciprocamente che tu abbia bisogno di qualcosa che è nel mio background. Poi precisiamo, io non ho uno studio, sono un produttore senza studio, tutta la mia attrezzatura può stare in una valigia.

Paolo Baldini nel suo studio

Paolo Baldini nel suo studio – Foto di Mattia Balsamini

Com’è nata la collaborazione con i Tre Allegri Ragazzi Morti?

Mi hanno chiamato un giorno chiedendomi se mi sarebbe piaciuto lavorare con loro, perché volevano fare un disco reggae. È stata una bella collaborazione, sono una band fighissima. Non li conoscevo molto, o meglio, quando ero ragazzo, prima della mia crisi con il Rock, li seguivo, andavo spesso ai loro concerti. Dopo la scoperta del Rock avevo smesso di andare ai loro concerti, però li guardavo da lontano, li vedevo crescere ed ero sempre contento per i loro successi.

Ero molto felice di collaborare con loro. Considero Davide un vero artista e Luca un batterista fighissimo. Quando mi hanno chiesto di produrre il loro disco, mi sono immaginato una band come loro, un po’ naif, che voleva farsi un viaggio reggae e, un minuto dopo, avevo chiaro in mente che suono dovesse avere il disco.

Parliamo adesso dei Mellow Mood e del lavoro con loro. Come siete arrivati a produrre due album assieme?

Tutto è nato in modo molto semplice. Molti amici che li avevano visti suonare quando ancora erano piccoli, nemmeno 18enni, mi avevano detto che dovevo vederli dal vivo e che erano incredibili. I gemelli e Giulio già allora erano dei fuoriclasse, hanno un talento cristallino. Inizialmente ho fatto uno sforzo per lasciarli stare. Suonavo ancora con i BR Stylers e il mondo Dub è sempre affamato di cantanti. Altri avrebbero vampirizzato la band, prendendo quelli che potevano già dare qualcosa musicalmente. Li ho sempre considerati una cosa pura e da rispettare, in quanto germinazione spontanea di un territorio a tratti inutile come il nostro. Quando mi hanno chiesto di fare il disco ho accettato volentieri. Ho cercato di mantenere pura la loro visione musicale. Già all’epoca il Reggae imponeva un certo tipo di semantiche, un certo tipo di regole stilistiche, che conoscevo perfettamente, ma che ho preferito lasciare fuori. I Mellow avevano una scrittura che, a prescindere dal genere, era speciale. Tutto il loro primo disco è cosi, molto ingenuo se vogliamo, ma di una scrittura pura. Realizzando il disco ho cercato ti rispettare questa cosa.

Il disco è andato bene, poi abbiamo fatto il secondo, continuiamo a collaborare su un sacco di progetti. Mi considero quasi uno di loro e i loro successi mi gonfiano d’orgoglio.

L’abbiamo chiesto anche a loro e lo chiediamo a te, dal punto di vista del produttore. Cos’è cambiato tra il loro primo e secondo album?

Una domanda cosi, in qualsiasi altro contesto, meriterebbe una risposta ragionata. In questo caso ti direi una cosa di questo genere: nonostante non siano passati cosi tanti anni tra i due album, stiamo parlando di cantanti cosi giovani che nel frattempo gli è cambiata la voce. Jacopo non potrà mai più cantare come nel primo disco, non aveva neanche la barba allora!

Le differenze tra il primo e il secondo album sono enormi. Per artisti di quell’età cinque anni vogliono dire tantissimo. Anche io ho lavorato un sacco in quel periodo, ho fatto tantissime cose, per me è come se fossero passati 20 anni. Anche la loro scrittura è un po’ cambiata. Prima erano una band di ragazzini che trasmettevano ad altri ragazzini come loro una possibilità molto semplice, che chiunque può essere Bob Marley e questa cosa ha fatto innamorare tutti di loro. Il secondo disco doveva partire da questo punto e al contempo affermarsi in un circuito reggae mondiale bastardo, fatto di regole molto ortodosse, di stilemi molto forti, quindi si dovevano bilanciare le loro peculiarità con la proiezione della Jamaica nell’immaginario collettivo. Secondo me ci siamo riusciti in pieno, loro hanno mantenuto il loro pubblico e lo hanno ampliato esponenzialmente. Anche gli esperimenti Dub che stiamo facendo adesso sono molto seguiti e commentati. Sono riusciti a fare la cosa più difficile: hanno fatto il secondo passo facendo esattamente quello che dovevano fare. Jacopo non ha dubbi, parli con lui e parli con una persona che, molto saggiamente, ti dice che per cercare di esistere in questo mondo devi essere il migliore.

Qualche tempo fa abbiamo intervistato altri due produttori, Cisa e Drooid. Anche loro lavorano in uno studio molto isolato in un paesino vicino a Gorizia. Anche per te l’isolamento è necessario per fare musica?

La musica che faccio richiede un certo isolamento. Il mio studio ideale è modello “Guardiano del Faro”, su un’isoletta croata. Però, quando viaggio e vedo paesaggi che mi piacciono, immagino dove mi piacerebbe avere lo studio. Mi piacerebbe anche avere lo studio a Venezia, oppure a Marghera.

Che consigli daresti a qualcuno che vuole intraprendere la tua stessa carriera?

È una domanda molto impegnativa. Dipende chi ho di fronte. Ad un produttore di Reggae e Dub potrei dire delle cose, ad un produttore di Elettronica ne direi altre, dare altri consigli ancora a chi fa Dance o Dubstep. Metterei in guardia chi invece vuole fare il produttore in senso assoluto, come Timbaland o Jack Ruby. A queste persone non so cosa dire, a parte che c’è bisogno che qualcuno si occupi anche di musica, è molto più figo fare il musicista. Aggiungo anche che tutti questi aspiranti produttori dovrebbero fare quello che gli piace. Ho sempre fatto la musica che mi piace, senza criteri di speculazione. Bisogna fare la propria musica, nutrire la propria sensibilità e il proprio gusto. Può succedere che seguendo le proprie scelte si diventi degli innovatori.

Come di consueto chiediamo tre brani da ascoltare.

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Come al solito un po’ di link utili!

Qui trovate l’intervista ai Mellow Mood.

Qui l’intervista a The Sleeping Tree, cantante Folk del Nord Est.

Qui quella a Davide Toffolo, cantante dei Tre Allegri Ragazzi Morti.